
Quando l’arte contempla l’invisibile: Emiliano Alfonsi e “Armonia Celeste”
Quando l’arte contempla l’invisibile Emiliano Alfonsi e Armonia Celeste.
L’opera inedita acquisita al Museo Diocesano di Agrigento
Dopo “Sinopie”, la mostra allestita nel 2023 nelle sale del Museo Diocesano di Agrigento, oggi l’artista ritorna con un’opera inedita “Armonia Celeste”, acquisita dallo stesso museo, il 2 ottobre 2025. Esiste un paradosso fondamentale nell’arte sacra: come rendere visibile ciò che per sua natura trascende ogni forma? Come tradurre in materia, colore e spazio un’esperienza che appartiene al regno dell’ineffabile? È precisamente questa tensione irrisolvibile che Emiliano Alfonsi sembra abbracciare con la sua opera “Armonia Celeste”, acquisita dal Museo Diocesano di Agrigento nell’ottobre 2025. La storia della filosofia dell’arte si è confrontata per secoli con il limite della rappresentazione. Kant parlava del sublime come di ciò che supera ogni possibilità di raffigurazione, generando nell’osservatore un sentimento di sconfinato che nessuna forma può contenere. L’arte sacra occidentale ha sempre oscillato tra due poli: l’iconoclastia, che rifiuta ogni immagine del divino per preservarne la trascendenza, e l’iconodulia, che scorge nell’immagine non una riproduzione ma un’epifania, una manifestazione che non esaurisce ma rivela. Alfonsi sembra posizionarsi in questo secondo orizzonte, ma con una consapevolezza tutta contemporanea. La sua opera non pretende di catturare il sacro, ma di creare le condizioni per una sua possibile apparizione. Non è rappresentazione, ma invocazione. Il titolo stesso – “Armonia Celeste” – rimanda a una tradizione filosofica che risale a Pitagora e attraversa Boezio, Ficino, fino a Leibniz: l’idea che l’universo sia strutturato secondo proporzioni musicali, che esista un’armonia cosmica impercettibile ai sensi ma coglibile dall’intelletto. La musica delle sfere non è una melodia fisica, ma l’ordine stesso del cosmo, il logos che struttura il reale. Esiste una dimensione del reale che si sottrae alla percezione empirica ma che può essere esperita attraverso una forma di conoscenza più profonda. È quella che i medievali chiamavano «intellectus» distinguendola dalla “ratio” – Un non il ragionamento discorsivo, ma l’intuizione immediata dell’essenziale. Particolarmente significativa è l’espressione dell’artista circa il desiderio di creare “un istante di grazia sottratto al fluire del tempo”. Qui emerge una concezione della temporalità che si oppone al cronos, il tempo quantitativo e misurabile, per avvicinarsi al kairos, l’istante qualitativo, il momento pregnante in cui l’eterno irrompe nel transitorio. L’opera d’arte, in questa prospettiva, non appartiene alla dimensione storica dello scorrere, ma costituisce un varco, una frattura nell’ordinarietà attraverso cui filtra qualcosa di permanente. È ciò che Heidegger chiamava “la messa in opera della verità” – l’arte come disvelamento, come aletheia, non come produzione di oggetti estetici. L’acquisizione di un’opera contemporanea da parte di un museo diocesano non è un semplice fatto amministrativo, ma solleva questioni filosofiche fondamentali. Come può dialogare la contemporaneità con la tradizione senza tradire né l’una né l’altra? Come evitare che il nuovo sia mera ripetizione stilistica del passato o, al contrario, rottura iconoclasta che nega ogni continuità?“L’opera di Alfonsi è un progetto culturale pensato per Agrigento, destinato ad arricchire la Collezione permanente del Museo Diocesano” e la necessità di “capire il linguaggio del nostro tempo”, sostiene la direttrice del museo. Questa affermazione contiene un’intuizione ermeneutica fondamentale: ogni epoca ha una propria modalità di interrogare il reale, una propria struttura del sentire. L’arte contemporanea non può limitarsi a imitare le forme del passato perché quelle forme erano incarnazioni di domande diverse, poste da un’umanità che abitava il mondo in modo diverso. Ma allo stesso tempo, se esiste qualcosa come un’esperienza religiosa autentica, questa deve possedere un nucleo transtorico, qualcosa che attraversa i secoli pur manifestandosi in forme mutevoli. Il compito dell’arte sacra contemporanea è proprio questo: trovare le forme attuali per un’esperienza perenne. Gli angeli, tema centrale dell’opera, rappresentano nella tradizione occidentale una figura filosoficamente affascinante: sono mediatori tra finito e infinito, messaggeri che attraversano la soglia tra i mondi. Non appartengono pienamente né al sensibile né all’intellegibile puro, ma costituiscono una realtà intermedia. Plotino parlava di realtà intermedie tra l’Uno e il molteplice; per i medievali gli angeli erano intelligenze separate che partecipavano dell’eterno pur agendo nel temporale. In ogni caso, l’angelo è una figura-limite, un concetto-soglia che indica precisamente l’impossibilità di separare nettamente i due ordini del reale. Rendere l’angelo il soggetto di un’opera contemporanea significa interrogarsi sulla possibilità stessa della mediazione, sulla capacità dell’arte di essere ancora tramite verso qualcosa che la eccede. È una scommessa audace in un’epoca che ha proclamato, forse troppo frettolosamente, la morte di ogni trascendenza. Ciò che l’opera di Alfonsi suggerisce è un’estetica della presenza contro un’estetica della rappresentazione. Non si tratta di raffigurare il divino (impossibile) né di significarlo simbolicamente (troppo astratto), ma di creare le condizioni spaziali, cromatiche, materiali perché qualcosa possa accadere nell’incontro tra opera e osservatore. È un’arte che apre possibilità di esperienza, richiede la disponibilità contemplativa. Chiede tempo, silenzio, pazienza – virtù sempre più rare nel nostro orizzonte culturale. “Armonia Celeste” diventa così un atto di resistenza: afferma la possibilità di un’esperienza estetica che sia anche esperienza spirituale, di una bellezza che non si esaurisca nell’impatto visivo ma riverberi in profondità.
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